E chiedere aiuto puo' essere molto difficile, a volte: vuoi perche' siamo spaventati dalla retorica del ...leggi tutto
E chiedere aiuto puo' essere molto difficile, a volte: vuoi perche' siamo spaventati dalla retorica del fallimento personale, vuoi perche' siamo costantemente abituati ai paragoni nocivi (uno su tutti, quello coi propri nonni/genitori, che sembrano avercela fatta in condizioni peggiori - anche molto peggiori - delle nostre), vuoi perche' siamo spaventati dallo stigma sociale nei confronti di chi, alla fine, decidi di farsi aiutare (Dallo psicologo ci vanno i matti, no?)...
Comunque stiano le cose, decidere di farsi aiutare e' quasi sempre una decisione sofferta, alla quale si giunge dopo episodi piu' o meno devastanti che la vita ci ha obbligato ad affrontare: qualcuno per la morte di una persona cara, qualcun altro per la fine tragica di una relazione, qualcun altro ancora a causa della situazione insostenibile sul posto di lavoro, oppure per il rapporto esageratamente conflittuale coi propri cari (non per forza figli adolescenti), eccetera, eccetera, eccetera
Nel mio caso, in particolare, il problema sono gli scatti d'ira e il baratro di violenza ad essi collegato. Intendiamoci: non ho mai picchiato nessuno e non sono un tipo da risse allo stadio, eppure vi assicuro che non c'e' bisogno di arrivare a tanto per parlare di violenza<br>
Quando mi prendono i 10 minuti brutti, tipicamente durante una lite domestica, sono solito sfogare tutta la rabbia/frustrazione/delusione del momento urlando a voce alta e tirando pugni e calci ai muri, ai mobili, alle porte…
Gesti di cui poi, puntualmente, mi pento; un pentimento che, pero', non ha mai portato alcun miglioramento. Ecco: ben consapevole di questo stato di cose, ho deciso di rivolgermi ad uno specialista quella volta in cui, durante l'ennesima lite, mi sono rotto una mano tirando un pugno su un muro, e ricordando (retrospettivamente) lo sguardo impaurito della donna con cui vivo da quasi 10 anni.
Dico retrospettivamente perche' durante uno scatto d'ira la rabbia mi acceca e non sono in grado di distinguere piu' niente: e' solo dopo, quando ci ripenso, che mi rendo conto di aver esagerato ancora una volta.
E questo mi fa stare male, ogni volta; soprattutto considerando che se, un domani, non sia mai, diventassi padre, spero con tutto me stesso di non risultare per i miei figli una sorgente di paura o, peggio, di terrore puro, come e' stato per me. I genitori ci devono educare, e' sacrosanto, ma evitare la violenza (fisica E verbale) nel modo piu' assoluto. Che non significa risparmiare la pacata sculacciata educativa, quando serve, nossignore! Significa solo che qualsiasi cosa si faccia bisogna sforzarsi di non rendere la casa come un ambiente ostile, un ambiente da cui voler scappare via il piu' in fretta possibile.
In altre parole, ho sempre invidiato chi possiede un buon rapporto coi propri genitori, e (se la vita mi portera' ad avere una famiglia) vorrei cercare di instaurare qualcosa di simile coi miei figli, tutto qua.
Ma torniamo a noi, e alla mia esperienza in psicoterapia.
Cosa mi ha lasciato questo anno di incontri settimanali a parlare di me e di come io percepisco il mondo che mi circonda? Mi ha fatto capire innanzitutto che i miei scatti d'ira nascondono spesso e volentieri (in realta', quasi sempre) emozioni differenti dalla rabbia, emozioni che non sono stato abituato a riconoscere per quello che sono (paura, delusione, frustrazione, eccetera), e che la rabbia e' il modo principale (per non dire l'unico) in cui il mio cervello - emotivamente analfabeta - esprime quell'accumulo di negativita'. In altre parole, e' l'unico modo in cui so comunicare al mondo esterno che qualcosa mi ferisce, che mi fa stare male, e questo perche' (manco a dirlo) non ho ricevuto un buon esempio in famiglia.
A questo punto mi permetto di insistere sull'ovvieta' della conclusione: la stragrande maggioranza dei nostri problemi emotivi e' conseguenza diretta del modo in cui ci hanno trattato i nostri genitori (o, comunque, chi si occupava di noi quando eravamo piccoli e indifesi). Non ci vuole certo un professionista per rendersene conto, e' chiaro, ma la tendenza e' sempre quella di pensare che, in fondo, gli errori dei nostri genitori (o chi per loro) sono stati commessi in buona fede, e quindi si passa sopra tutto, credendo cosi' (piu' o meno inconsapevolmente) di poter ottenere a propria volta una anticipata assoluzione di fronte ai torti che faremo ai nostri figli.
Ebbene, di fronte a questa dinamica io ho voluto spezzare il circolo vizioso: cresciuto da madre violenta e padre praticamente assente, ho iniziato la terapia (anche) perche' ho deciso che i miei eventuali figli meritano di vivere in una famiglia migliore (molto migliore, se possibile) di quella in cui sono cresciuto io. Una famiglia in cui, per intenderci, le urla e le botte sono l'eccezione e non la regola. Nient'altro.
E la terapia mi ha fatto capire che, col dovuto aiuto, posso farcela.
Cio' detto, non credo che questo anno di terapia (cioe' circa 50 incontri di 45 minuti) sia stato anche solo lontanamente sufficiente ad aver risolto il mio problema una volta per tutte, sia chiaro, ma sento che ha smosso qualcosa, che sia stato l'origine di un miglioramento che d'ora in poi mi impegnero' attivamente a mantenere vivo.
Un impegno che significhera' accettare la fatica, la tristezza, la delusione, la paura, ma che sento necessario. Necessario per me, in primo luogo, per riuscire a vivere piu' serenamente (in generale), ma necessario anche e soprattutto nei confronti delle persone che mi vogliono bene e alle quali sono io a voler bene, che non meritano di sentirsi urlare addosso o, peggio, di assistere a gesti infuocati di violenza ogni volta che so (o che penso) di aver ragione, e che quella ragione non mi viene riconosciuta immediatamente.
Detto cio', e per quanto la mia terapista ci ha provato a farmi capire che ogni punto di vista esprima la sua ragione (emblematica la frase “Un ragionamento pu? essere sbagliato, un'emozione no”), io resto dell'idea che 2+2 far? sempre 4 e che ci saranno sempre delle situazioni in cui il proprio partner ha palesemente torto ma che il suo orgoglio (o il suo coinvolgimento emotivo) non gli permette di accettare il proprio errore e di chiedere scusa, o comunque di fare il proverbiale passo indietro.
Ecco: questo anno di terapia mi ha fatto capire (tra le altre cose) che anche di fronte a qualcuno che ti accusa di essere una merda perch? ti <<ostini>> a sostenere che 2+2 fa 4, arrabbiarsi non servire letteralmente a niente e, anzi, non fa altro che peggiorare la situazione, facendo s? che la persona che abbiamo davanti perda anche quel briciolo di lucidita' che gli era rimasta. La calma e' la virtu' dei forti, dicono, ma, per come la vivo io, la calma e' solo la virtu' di chi non e' coinvolto.
Eppure, grazie alla terapia, quando si verifica un episodio che fino a un anno fa mi avrebbe fatto spaccare un armadio, adesso sento dentro di me un'alternativa alla rabbia, e cioe' la possibilit? di ASPETTARE che la persona che abbiamo davanti si renda conto di aver commesso un errore, coi SUOI tempi, senza sentire l'urgente necessita' di vedere la propria ragione riconosciuta immediatamente, su due piedi.
E, in maniera complementare, ho imparato che anche chiedere scusa non basta per rimettere a posto un torto, anche se fatto in buona fede: puo' essere sufficiente per me, ma pi? e' profonda la ferita che abbiamo inferto a chi ci sta davanti e pi? potrebbe essere lungo il tempo affinch? essa si rimargini (nonostante le nostre scuse pronte e totali).
Un passo in avanti quasi insignificante, dato che solitamente queste dinamiche si imparano all'asilo, ma che sento di aver compiuto finalmente nella giusta direzione. A questo punto potrei interrompere il resoconto, ma voglio aggiungere un'ultima cosa, rivolta agli scettici (a coloro che tendono a pensare che <<Se pu? aiutarmi uno sconosciuto, posso aiutarmi anche da solo>>); una cosa che ha a che fare coi miei dubbi sulla terapia e su tutto cio' che, in generale, circonda la psicologia intesa come scienza. Per quanto agli psicologi piacerebbe che la loro disciplina venisse gia' riconosciuta come una scienza al pari della fisica o della chimica, quel giorno e' ancora molto lontano da venire e, anzi, potrebbe addirittura non succedere mai. Il mio scetticismo, pero', non deriva solo da tutti i dubbi che nutro sull'effettiva esistenza dell'inconscio, o sulla pratica dell'interpretazione dei sogni, e in generale sull'aura di sacralita' che ancora circonda la figura di Freud. Esso deriva proprio dalla sensazione (resa ancora piu' nitida da questa esperienza annuale di psicoterapia) che gli psicologi tendono a parlare come se fossero dei dottori, confondendo un laboratorio medico con un confessionale religioso, di cui sospetto che la psicoterapia sia un parente stretto; un parente che, capito il potenziale della pratica, ha deciso che non c'era pi? bisogno di indossare l'abito da prete e che era giunta l'ora di indossare quello da dottore, per cos? dire…Comunque stiano i fatti, il punto e' che per quanti dubbi possiamo nutrire sui loro metodi, parlare con uno/a psicologo/a significa comunque rivolgersi ad un esperto, uno/a che sono anni che sente raccontare le stesse storie e le stesse vicende; vicende che, per quanto diverso nello specifico, risultano spesso del tutto simili le une alle altre, perch? siamo noi essere umani che facciamo tutti parte della stessa specie: le emozioni umane quelle sono, a prescindere dalla lingua (o dai modi) in cui le esprimiamo, e gli psicologi (almeno, bravi) sono in grado di quelli farci capire - A PAROLE!!! (cosa notevolissima) - dove condurre i nostri pensieri, dove e quando e' necessaria da parte nostra una seconda riflessione e dove, invece, non insistere oltre perche' gli strumenti (emotivi e/o cognitivi) a nostra disposizione risultano gia' abbastanza buoni. E, soprattutto, a differenza dei preti, gli psicologi non ci assolvono dai nostri peccati ma, se ne avvertono la necessita ', hanno la premura di indicarci qualcuno sopra di loro (no, non Dio: uno psichiatra) che possa prescriverci le medicine che fanno al caso nostro. Perche' un conto ? il lavoro che possiamo svolgere autonomamente su di noi, un altro conto sono le depressione gravi che rischiano di rendere la nostra stessa vita non pi? degna di essere vissuta, per le quali una piccola stampella farmacologica puo? essere di grandissimo aiuto.-
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